Festa di S. Antonio

La Festa di Sant’Antonio tra il sacro e il profano

Storia e leggenda si intrecciano nella tradizionale Festa di Sant Antonio Abate, un Santo che a Saronno è venerato da molti secoli e che trova la sua ideale cornice nella suggestiva chiesetta a lui dedicata.
A questa piccola chiesa è collegata la storia di una antica famiglia saronnese, il casato degli Zerbi. Una pubblicazione edita molti anni fa dal Circolo dei Numismatici Saronnesi, riporta la storia di questo antico oratorio e delle sue tradizioni che ancora perdurano, tra il sacro e il profano, fino ai giorni nostri.
I primi documenti, utili ai fini della ricostruzione storica, risalgono al 1385, data di un rogito notarile saronnese in cui appare per la prima volta la descrizione di: “ un appezzamento di terra di campo giacente nel territorio del borgo di Serono dove si sarebbe dovuto erigere un oratorio”.
La costruzione di questa chiesetta, all’incirca eretta dopo la metà del Quattrocento, si deve appunto alla famiglia del notaio Antonio Zerbi, già console della Comunità di Saronno e ricco proprietario terriero
. Era in uso, in quei tempi, far costruire chiese e oratori a perenne memoria del casato o per degli ex voto. La fortuna della famiglia Zerbi, amici dei Visconti di Serono, cominciò a vacillare dopo l’improvvisa e disastrosa sconfitta di Ludovico il Moro, ad opera dei francesi, che provocò il tracollo anche per la nobile famiglia saronnese nel cui stemmario quattrocentesco, detto Codice Carpani, figura lo stemma “ de Zerbis de Serrono”.
Anche l’illustre vescovo di Milano, San Carlo Borromeo, nell’occasione di una sua visita al Santuario di Saronno nel 1581, volle visitare quella chiesetta in mezzo ai campi e lasciò anche alcune disposizioni, come risulta dai documenti dell’Archivio della Curia Arcivescovile.
Nel 1528, nonostante le traversie legate alla casata Zerbi, si parla ancora di un Pietro Martire Zerbi che provvide, con un lascito, al sostentamento della chiesetta, nella quale volle essere sepolto.
La caduta del ducato di Milano, fece perdere agli Zerbi anche i diritti nobiliari, però, nonostante le traversie, provvidero ugualmente alla manutenzione della struttura. Successivamente, in assenza di discendenti diretti, ci furono altri eredi Zerbi che continuarono a vantare i diritti di jus-patronato sulla Chiesa fino al 1859, anno in cui fu ceduta la proprietà con donazione alla Parrocchia.Da quest’epoca comincia un’altra storia per questo luogo di devozione, è stato lazzaretto durante la pestilenza, delle sagre contadine, degli ex voto e, soprattutto, del culto per Sant’ Antonio Abate, conosciuto come “ Sant’ Antonio del porcello”.
All’interno della chiesetta c’è ancora un’epigrafe in lingua latina, murata sopra la porta maggiore che ricorda i morti di peste, come anche la stele di granito, collocata intorno agli
anni trenta. Di pestilenze Saronno ne ha subite più d’una: quella del 1576, che durò quasi un anno e quella cosiddetta “del Manzoni” che fece migliaia di vittime anche nel borgo saronnese. La piccola Chiesa fu trasformata, in entrambi i periodi, in lazzaretto e i sopravvissuti dell’ultima epidemia fecero un solenne voto alla Vergine Maria, promettendo che ogni anno, nel mese di marzo, (periodo in cui l’epidemia finì di mietere vittime) si sarebbero recati in processione al Santuario offrendo candele votive. La tradizionale processione, che inizia poco dopo il sorgere del sole, si perpetua ancora oggi in ricordo del voto fatto quattro secoli or sono.
Nella sacrestia ci sono ancora due quadri legati al periodo degli Zerbi. Uno è il ritratto di Carlo Francesco Zerbi, morto nel 1775 e l’altro di Giovanni Battista Zerbi morto nel 1841.

Chi era Sant’ Antonio Abate? La storia racconta che Antonio, nobile di origine e nato “nelle contrade d’Egitto” ancora ragazzo fu ispirato da Dio, lasciò tutti gli agi e le ricchezze della famiglia e fuggì: “ … non potendo più sostenere d’abitare colle genti del secolo, acceso d’un santo desiderio, fuggì in solitudine e incominciò a fare asprissima e santissima vita”.
Aveva poco più di 20 anni e la sua biografia racconta di terribili tentazioni per opera del demonio. Una volta gli apparve il diavolo sotto le spoglie di un fanciullo, un’altra fu flagellato da una schiera di demoni, ma il più delle volte veniva tentato da laidi pensieri: “… lo nemico gli facea apparire di notte forme di bellissime e impudiche femmine…” Antonio resistette alle tentazioni pregando e digiunando e alcuni vedono un collegamento tra le tentazioni di Antonio e la figura del porcello che il Santo porta con sé, dopo averlo ammaestrato. Morì, così dicono gli storici, un gelido 17 gennaio di un anno imprecisato, alla veneranda età di 105 anni, sotto l’impero di Costantino.

FOLKLORE E DEVOZIONE

Nel giorno di S. Antonio, viene esposta la reliquia del Santo, e una interminabile processione di fedeli entra nella Chiesetta per baciare la reliquia. Anche la tradizionale benedizione degli animali non si è perduta, e durante il pomeriggio del giorno 17, alle 15, com’era nelle antiche tradizioni, i saronnesi portano le loro bestie, che oggi sono cani, gatti, criceti ecc. a far benedire. Una volta erano i cavalli il mezzo abituale di trasporto ed erano benedetti nel nome di S. Antonio. Oggi i cavalli sono stati sostituiti dalle quattro ruote e quindi, un po’ paganamente, si benedicono le macchine.
Il piccolo campanile che svetta sulla chiesetta ha una campana che, nei secoli passati, era suonata per annunciare il temporale e avvertire i contadini, perché mettessero al riparo le bestie. Scrive il Rozzoni: “ Quando vegnèva su ol temporal brutt, brusavan l’oliva da Pasqua sotto i portich”. Secondo le tradizioni, bruciare le foglie dell’olivo, allontanava i fulmini e la grandine. Sulla cima del piccolo campanile accadeva anche questo:” portavan i gaijnn ca ga s’è inversaa l’ovéra”, le buttavano giù perché, così facendo, ” ga sa drizzàva.”.
S. Antonio, insieme ai santi Mauro e Marcello, viene annoverato tra i Santi del Freddo che, con un accostamento un po’ pagano, sono quelli che danno inizio alle feste del carnevale che chiude l’inverno e le sue interminabili e scure giornate. Molte volte c’era la scighèra ( la nebbia) e le giornate erano ancora più tristi. Il carnevale rappresentava, con tutte le sue simbologie, la fine di un periodo triste e quindi veniva bruciata la Gioeùbbia,
e arrivava finalmente la settimana grassa. Un momento particolare era la benedizione delle bestie, oggi trasformata in benedizione degli automezzi anche se resiste ancora una piccola minoranza che porta a far benedire i propri animali. “ E al dopomezzdì, vers i tre, dopo i Vespar tiràvan foeùra i besti di stall. Tiràvan foeù ol caval, la vacca, ol berìn, la cavarètta, i occh e i pùj eran già lì in cort”. Il Prete, allora, usciva e andava nella corte a benedire gli animali radunati e benediva anche i contadini.Ogni stalla, allora, aveva sull’uscio un quadro o una statuina di S. Antonio Abate. Seguiva poi la festosa fiera, forse una delle poche occasioni di festa. Arrivavano da lontano i bombonàtt per la gioia dei bambini che potevano comperare qualche croccante, pezzi di torrone, trombètt e sonèj. Non potevano mancare i fironàtt cont i fìròn in spalla, che, fortunatamente, sono presenti anche ai giorni nostri. La festa si chiudeva con un grande falò cont i margaràsc, vers sett e mezza/vott or e simbolicamente, veniva bruciato l’inverno, la carestia e il male. La festa continua ancora e l’appuntamento è per il prossimo 16 e 17 febbraio.

PROVERBI E FILASTROCCHE

Quando si perde qualche oggetto, la tradizione vuole che il Santo la faccia ritrovare ma bisogna dire: Sant’Antoni da la barba bianca, fèmm trovà quell ca ma manca. Segue una giusta offerta in denaro al Santo.

Sant’Antoni al gh’èva on pòrcell
ca ‘l sonava ol campànell.
Ol campànell al s’è rompuu
Sant’Antoni al s’è sconduu.
Al s’è sconduu dree d’ona porta
gh’eva là ‘na dona morta.
La dona morta la s’è stremii
Sant’Antoni l’ha benedii.

Il libro scritto dall’Ing. Pietro Antonio Zerbi, stampato a cura della Società Numismatica, parlava anche di ricette gastronomiche tipiche, come la Cazzoeùra dal Gnetta, un oste che aveva la trattoria, fino a circa 15 anni fa, in Contrada San Cristoforo.. La ricetta, tramandata nei secoli è la seguente.

INGREDIENTI:
cotenne fresche
costine, puntine, ol coìn da porcèll
verze invernenghe ( quelle verdi) cipolla, alloro a piacere, olio e sale
carota, sedano
vino bianco secco (1 bicchiere) – salsa di pomodoro
pepe, noce moscata, cannella

PER LA COTTURA
Tostare le cotenne per dieci minuti con olio e cipolla in modo che lascino il grasso. Mettere due foglie di alloro e aggiungere la carota, il sedano a piccoli pezzi, il vino bianco e per ultimo la salsa. Si continua la cottura per mezz’ora poi si aggiungono le costine, le puntine, ol coìn da porcèll che devono cuocere per un’ora. Passata l’ora si aggiungono le verze (che non devono essere troppo cotte altrimenti perdono la consistenza)
CONSIGLI
Le spezie si mettono per ultime. Da sòlit l’era un compos di pepe, noce moscata e cannèlla: ga disèvan la drogheria.

Maria Grazia Gasparini

santantonio disegno